Beato Marco D’Aviano

7213

La vita di Padre Marco è, a dir poco, sconcertante. La Provvidenza vi gioca nei modi e momenti più impensati, mentre egli asseconda con umiltà e fedeltà il disegno di Dio.

Nasce ad Aviano, in Friuli, il 17 novembre 1631. Lo stesso giorno, riceve al battesimo il nome di Carlo Domenico. I genitori, Marco Cristofori e Rosa Zanoni, sono benestanti. Hanno altri dieci figli, dei quali uno sacerdote come lo zio paterno.

Il ragazzo lascia sperare bene e perciò viene affidato ai padri Gesuiti nel prestigioso collegio di Gorizia. Tutto procede normalmente finché un giorno Carlo Domenico, sui sedici anni, fugge dal collegio. Mette ali alla sua fantasia ciò che sta succedendo nell’isola di Candia, dove i veneziani resistono da tempo all’assalto dei turchi. Non sono pochi i giovani che sognano di partecipare a quegli atti di eroismo. Arrivato a Capodistria e in procinto di imbarcarsi, è costretto però dalla fame a bussare al convento dei Cappuccini. Non è difficile convincerlo di tornare a casa. Non gli mancheranno in seguito le occasioni di viaggiare e trovarsi fra soldati e battaglie.

Cappuccino e predicatore

L’anno dopo (1648) il giovane Cristofori bussa ancora alla porta dei Cappuccini; questa volta ha un progetto ben chiaro: vuole farsi frate. È accolto nel noviziato a Conegliano con il nome di fra Marco. Il 21 novembre 1649 fa la professione religiosa. Affronta quindi gli studi per la preparazione al sacerdozio. Il 18 settembre 1655 è ordinato sacerdote a Chioggia, ma non potrà predicare: gli esaminatori non lo trovano idoneo. A Marco piacciono comunque il silenzio e la vita nascosta di convento. Prega, fa penitenza, si esercita nelle virtù: vuole fare solo la volontà di Dio. C’è però chi si accorge della ricchezza nascosta in questo frate umile. Gli fanno riprendere gli studi. Nel 1664 è abilitato alla predicazione: Padre Marco a qualsiasi altra occupazione preferirà sempre, pur ritenendosene indegno, il ministero della parola.

Le prime prediche risentono del gusto del tempo; ma presto il suo stile diventerà più essenziale, personalissimo. Non improvvisa, si prepara accuratamente; studia, soprattutto prega. La sua predicazione è alimentata e riscaldata dalla preghiera: «Le sue prediche erano meravigliose. Versava fiumi di eloquenza divina», assicura un uditore.

E la gente accorre. Non solo i semplici: ci sono prelati, nobili, intellettuali. E non si tratta di mera curiosità: la parola del predicatore sconvolge le coscienze e tocca i cuori. Mentre egli predica sono molti doti impegnati nell’ascoltare le confessioni.

Taumaturgo e apostolo del dolore perfetto

Predicatore efficace e richiesto; ma niente di eccezionale fino all’8 settembre 1676, quando, dopo la predica in onore della Vergine, nella chiesa del monastero di San Prosdocimo a Padova, Padre Marco benedice la monaca Vincenza Francesconi, inferma da tredici anni, e questa guarisce. Il fatto è subito risaputo. Padre Marco è preso d’assalto, specie dagli ammalati. Lo mandano allora a Venezia. L’affollamento si ripete e aumenta. In convento non c’è più pace e il trambusto spaventa l’autorità diocesana. Padre Marco deve far perdere le sue tracce: Chioggia, Rovigo, Verona… La situazione si calma, Padre Marco è di nuovo libero di esercitare il suo ministero e di benedire quanti si rivolgono a lui.

Il cappuccino fa allora in modo che la richiesta di benedizioni diventi una buona occasione per l’evangelizzazione, e non di superstizione e fanatismo. Egli “inventa” un rito penitenziale: preghiere, predica vibrante per ravvivare la fede e muovere al pentimento, recita dell’atto di dolore e, possibilmente, la confessione; quindi benedice e impartirà pure l’indulgenza plenaria quando il papa gli concederà tale privilegio.

Padre Marco insiste, servendosi anche di foglietti stampati, sul pentimento dei peccati così da divenire «il grande apostolo dell’atto di dolore perfetto, che per un quarto di secolo agitò e sconvolse con il suo messaggio penitenziale le coscienze d’Europa».

Alla benedizione succede l’incredibile. Nel 1681, a Monaco di Baviera, nella chiesa dei Cappuccini, si raccolsero «150 stampelle, 80 bastoni, 2 apparecchi ortopedici e altri oggetti lasciati dagli infermi guariti». La fama di taumaturgo complica terribilmente la vita di Padre Marco. La predicazione diventa faticosissima per la presenza di folle sempre più numerose. Sono decine di migliaia coloro che affollano i suoi quaresimali, tenuti senza anni e giorni d’interruzione nelle Venezie e Lombardia, città o piccoli paesi, che l’obbedienza gli assegna. Scrive: «Mi conviene predicare otto volte il giorno». «È tanto il concorso del popolo che non sto quieto né giorno né notte… E impossibile poter resistere senza speciale aiuto di Dio». Un testimone conferma: «Stupisce che resista a tanti strapazzi che di sé fa quel gran servo di Dio».

Missionario apostolico in Europa

A tale massacrante lavoro, dal 1680, sempre in obbedienza a papa Innocenzo XI e ai superiori cappuccini, s’aggiunge un altro impegno gravosissimo: i viaggi attraverso l’Europa quale “missionario apostolico”. Principi e prelati vogliono consultarlo, ricevere la benedizione. Sono centinaia e migliaia di chilometri. Padre Marco passa per la Francia, visita le città del Belgio e Olanda, della Germania, Austria e Svizzera; sempre a piedi, finché può. E i devoti, spesso indiscreti, s’assiepano al suo passaggio per vederlo, sentirlo, toccarlo; gli tagliuzzano la tonaca e gli strappano la barba… Il povero frate per predicare usa un miscuglio d’italiano e latino con qualche frase in tedesco. Ma si fa capire. «Fa piangere anche chi non lo intende», scrive un amico.

Importantissima la sua opera di mediazione e consiglio presso l’imperatore Leopoldo I d’Austria, che Padre Marco conosce a Linz nel 1680 e del quale diventa l’”angelo tutelare”. Leopoldo ha tante buone qualità, è pio e colto; ma come sovrano è debole e indeciso. È già arduo tenere insieme quel mosaico di stati che costituiscono l’impero; ci sono poi le minacce dall’esterno: i turchi ottomani che premono minacciosi, le rivalità di Luigi XIV di Francia che fa di tutto per creare difficoltà, l’Ungheria che non è tranquilla. Ci vuole proprio Padre Marco. Dalle lettere si arguisce il suo atteggiamento verso l’imperatore: grandissimo rispetto ma sincerità e fermezza. Egli è cosciente di svolgere una missione affidatagli da Dio e dalla Chiesa: «Eseguirò il tutto conforme la pia e santa mente di nostro Signore (il papa)».

Vienna, 12 settembre 1683

La situazione precipita nel 1683. Il gran visir Kara Mustafà si muove con il poderoso esercito del sultano contro l’Austria e invade l’Ungheria e parte dei Balcani. Dove passa fa terra bruciata: è il terrore, e l’obiettivo è la conquista della capitale dell’impero, e magari poi anche la calata fino a Roma. Leopoldo può opporre forze molto inferiori. Innocenzo XI si attiva allora per chiamare a raccolta vari principi, fra i quali il re di Polonia. Ma l’accordo è faticoso. I turchi intanto stringono d’assedio Vienna e da due mesi la città geme e langue: in settembre è sul punto di capitolare. Se cade Vienna, l’Europa è esposta a pericoli ancora maggiori, forse irreparabili.

Giovanni Sobieski incontra l’imperatore Leopoldo I a Schwechat – Galleria d’Arte di Lviv, opera di Artur Grotter.

Il papa invia a questo punto Padre Marco all’esercito cristiano come suo legato. Il cappuccino obbedisce. È ammesso al consiglio di guerra, riesce a sopire le rivalità, tiene l’imperatore lontano dalla contesa sul comando e sceglie il re Jan Sobieski di Polonia come capo nominale. Invoca dal cielo la liberazione e obbliga l’esercito a una giornata di preghiera. È l’8 settembre: celebra la messa, esorta i soldati al pentimento dei peccati, fa recitare l’atto di dolore e impartisce a tutti la benedizione. Ora l’esercito si muove verso Vienna, convinto della sua missione davanti alla storia.

Il 12 settembre è il giorno fatidico. Padre Marco celebra di nuovo all’alba la messa e offre la sua vita a Dio, purché siano salve Vienna e l’Europa. La vittoria arriva nonostante la grande inferiorità delle truppe alleate. I turchi fuggono. Tripudio in tutto il continente: il papa in ringraziamento estende nella Chiesa la memoria del Santo Nome di Maria; decisivo merito nella liberazione è attribuito a Padre Marco.

Naturalmente rispuntano le rivalità e non si sa sfruttare la vittoria. Si fa strada però l’idea di una lega antiturca, la “lega santa”, tra il papa, l’imperatore, la Polonia e Venezia. Padre Marco si prodiga per l’accordo, ma sempre come religioso e apostolo: «Mi si vorrebbe politico, cosa ch’io aborrisco più che la morte», scrive. Ogni anno continua a varcare le Alpi per incontrare e consigliare l’imperatore a Vienna e per visitare generali ed esercito accampati in Ungheria e nei Balcani, che egli sprona all’opera di liberazione e assiste spiritualmente: ambasciatore e cappellano militare!

Tessitore della pace

Non mancano i successi. Importantissima la conquista di Buda del 2 settembre 1686. «È certo, padre Marco mio riverito, che se lei non era sotto Buda facevimo la frittata. Lei è il braccio diritto della santa lega», gli scrive il legato di Venezia. Il Nostro è infatti il primo a entrare con una statua della Madonna nella fortezza liberata dopo quasi centocinquant’anni che era in mano ai turchi. Nel settembre 1688 si arriva anche alla presa di Belgrado, dove Padre Marco ottiene che sia salva la vita di ottocento soldati ottomani asserragliati nel castello.

Ma i tempi si fanno di nuovo difficili. I turchi, ripresa Belgrado nel 1690, tornano a farsi minacciosi. La Francia ne profitta e attacca l’impero a occidente. Padre Marco intensifica la sua missione diplomatica, ma soprattutto penitenziale; ha fiducia solo in Dio. Siamo nel 1697: Vienna corre il pericolo di un altro assedio e l’imperatore è spaventato. La città allora prega senza soste dietro a Padre Marco, che guida una “peregrinatio” dell’immagine miracolosa di Maria Potsch, fatta giungere dall’Ungheria. Dopo due mesi, una notizia folgorante: il valoroso principe e comandante Eugenio di Savoia ha sconfitto i turchi a Zenta. L’Europa non sarà più in loro scacco.

La pace dell’impero ottomano con quello d’Austria sarà firmata nel gennaio 1699 a Carlowitz. A Venezia intanto un ottavario di preghiere alla Vergine per la pace è pure indetto dal cappuccino. Il doge esclama: «Padre Marco, siete il rifugio della nostra Repubblica». Ma lui: «Dio sa che il fine di tutte le mie opere è la volontà di Dio sola».

Contemplativo nell’azione

Nel suo cuore c’è sempre l’aspirazione alla vita nascosta, nel silenzio e nella preghiera. È “un contemplativo nell’azione”. Nei viaggi conta i giorni che gli mancano per tornare in convento: qui gli pare di essere in paradiso. «Ma è pur vero che non posso stare in paradiso contro la volontà di Dio… Faccia Dio di me tutto quello gli piace». «Io mi trovo tanto nauseato delle corti che provo un purgatorio».

Ore di paradiso sono le messe celebrate da lui, e per questo dette “angeliche”. Lo sostengono e confortano pure il pensiero e l’invocazione devota alla Vergine Maria. E stanco e malandato di salute, eppure sempre sereno e accogliente: «Pareva nel suo viso la propria bontà e mansuetudine». La sua era una “faccia d’angelo”. Scrive un suo contemporaneo: «Fu sempre un ritratto di penitenza rigorosa, di umiltà, di patienza e di obedienza; di giorno in giorno cresceva nel fervore dell’orazione… Che ci resta dunque a dire di quel gran servo di Dio, se non che è un ritratto di ogni sorta di virtù e di vita esemplare?».

Morte di un santo

La morte coglie Padre Marco al suo quattordicesimo viaggio in Austria. La situazione è tanto confusa: «Io sto faticando per il bene comune né mai ho trovato le cose più imbrogliate di quello che trovi ora». «Se mi viene un poco de febre, sono perduto». E la febbre viene. Nel convento di Vienna i medici le tentano tutte, ma invano. Il nunzio apostolico gli imparte a letto la benedizione del papa. Anche l’imperatore Leopoldo e la consorte Eleonora gli fanno visita. Assistono addirittura alla sua morte il 13 agosto 1699, alle 11 del mattino, l’ora in cui Padre Marco era solito impartire la benedizione: «Spirò così placidamente che appena si conobbe», scrive Leopoldo. Ai funerali la folla è incontenibile. «Se non ci fossero state le guardie ben rafforzate, l’avrebbero lacerato per devozione». Nel 1703 la salma è trasferita nel sepolcro fatto costruire da Leopoldo I nella Kapuzinerkirche, dove sono pure le tombe imperiali.

La fama della santità di Padre Marco resiste all’usura del tempo, ma le condizioni politiche e avverse circostanze non permettono di istruire il processo per la canonizzazione. Bisognerà aspettare due secoli, quando il popolo di Vienna chiede l’inizio della causa. Altri ritardi e altre avversità procedurali rallentano i lavori. Finalmente la via si appiana, grazie anche all’indefesso lavoro e alle grandi convinzioni di un umile emulo di Marco d’Aviano: il cappuccino padre Venanzio Renier.

Dal 27 aprile 2003 la Chiesa può così onorare come beato questo vero figlio di San Francesco d’Assisi, che tanto fece e soffrì per l’Europa cristiana.

[Fonte: P. Zenone – P. Fernando Artuso, Felici fratelli, Edizioni Frate Indovino, Perugia, 1986, 203-210].