18.6 C
Venice

San Leopoldo Mandić

I santi consacrano il luogo dove hanno vissuto. Come Francesco Assisi i suoi eremi, Antonio Padova, Giovanni Vianney Ars, Pio da Pietrelcina San Giovanni Rotondo. Ma a Padova non c’è solo la basilica del “Santo”, ma anche una celletta-confessionale, nel convento dei cappuccini in piazza S. Croce, è diventato un luogo di attrazione. Qui san Leopoldo Mandić ha ascoltato le umili storie del peccato per oltre trent’anni. Questo “loghetto” fu risparmiato dall’incursione aerea del 14 maggio 1944, come il piccolo cappuccino aveva previsto:

La chiesa e il convento saranno colpiti dalle bombe, ma non questa celletta. Qui Dio ha usato tanta misericordia alle anime: deve restare a monumento della sua bontà.

La vita del santo “confessore” è racchiusa tutta in quei pochi metri quadrati. Ma non è facile raccontarla, perché è troppo semplice, nascosta alla sapienza del mondo.

Nato il 12 maggio 1866 a Herzog Novi, ossia Castelnuovo in Dalmazia, all’ingresso delle Bocche di Cattaro sull’Adriatico, ultimo di dodici figli, battezzato il 13 giugno col nome di Bogdan (Adeodato), il padre, Pietro Mandić, figlio di un “paron de nave”, cioè pescatore e commerciante, aveva sposato Carlotta Zarević, ambedue decisamente cattolici. Il ricordo della mamma affiorava spesso dal suo cuore:

Era di una pietà straordinaria. A lei debbo in modo particolare quello che sono.

Ragazzo riflessivo, raccolto, molto intelligente, tutto casa, chiesa e scuola, ma ardente di carattere. A sedici anni, il 16 novembre 1882, entrò nel seminario dei cappuccini di Udine.

La vocazione cappuccina di Adeodato nasceva da una forte ansia apostolica. Egli partiva per ritornare missionario tra “la sua gente”. Del resto un impulso di apostolato attivo nasceva anche dalle celebrazioni francescane lanciate da papa Leone XIII. Nei due anni trascorsi a Udine cercò di correggere, col silenzio e l’autocontrollo, quel suo difetto di pronuncia, un terribile sdrucciolo che lo bloccava nel suo desiderio di comunicare, avvivato dal suo carattere cordiale ed estroverso. Si rivelò subito un modello in tutto. L’anno di prova lo passò a Bassano del Grappa (Vicenza) dove, con l’abito cappuccino assunse il nome di fra Leopoldo il 2 maggio 1884. Poi ci fu il triennio filosofico a Padova, dal 1885 al 1888. Il 18 giugno 1887 – come egli stesso lasciò scritto – udì per la prima volta la voce di Dio parlargli del ritorno dei dissidenti orientali all’unità cattolica. È questo l’orientamento fondamentale di tutta la sua vita, il ritornello delle sue aspirazioni, la ragione della sua missione.

Nell’autunno del 1888 si trasferiva al convento del Redentore, presso l’isola veneziana della Giudecca, per un biennio di teologia, dopo il quale venne consacrato sacerdote, il 20 settembre 1890, nella chiesa de La Salute. Il suo sogno missionario gli sembrava più vicino. Subito chiese ai superiori di essere inviato missionario in Oriente. La risposta fu negativa. Era troppo balbuziente e i superiori non lo consideravano adatto. Anche successive e reiterate richieste vennero respinte. Egli si ripiegò nel silenzio dell’obbedienza, nel mistero della preghiera per l’unità, nella penombra del confessionale. Un campo missionario, più esteso delle terre d’Oriente, si apriva misteriosamente davanti al piccolo frate. La sua messa quotidiana, vissuta come impegno ecumenico, approfondiva la luce della sua vocazione, che poi si sprigionava penetrante e sapiente nel confessionale.

In sette anni di permanenza a Venezia, rilanciando sempre la sua ansia ecumenica, egli così piccolo e quasi goffo nel suo saio, era diventato un punto di riferimento, un vero maestro di spirito dotato di particolari carismi spirituali. Una pausa nel piccolo ospizio di Zara per tre anni gli sembrò un avvicinamento al suo ideale ecumenico. Pur senza un’attività diretta, egli dovette sentirsi a suo agio, vicino idealmente alla sua gente. Ma poi venne richiamato in Italia, a Bassano, dove trascorse un quinquennio tutto dedicato al confessionale, alla preghiera e allo studio dei suoi prediletti san Tommaso e sant’Agostino.

Nel 1905, per un altro anno, venne mandato al convento di Capodistria come vicario. Richiamato di nuovo in Italia, trascorse tre anni a Thiene (Vicenza) presso il santuario della Madonna dell’Olmo. Qui lavorò ad animare i gruppi dei terziari francescani, ma trascorreva molte ore notturne in orazione, che intensificò dopo una beffa ricevuta da tre giovani operaie, per cui venne esonerato dall’esercizio della confessione. Gli sembrava che tutto crollasse: la sua vocazione orientale, il desiderio di apostolato attivo, servizi di pubblica utilità. Egli era un piccolo frate, inadatto a tutto eccetto che a confessare. Ma anche di questo era stato privato. Un annientamento di sé e un abbandono mistico nella preghiera che lo amareggiò e insieme lo esaltò.

Trasferito a Padova nel 1909, i superiori gli affidarono la direzione degli studenti e l’insegnamento di patrologia. Un nuovo ardore apostolico lo prese nel voler dedicarsi alla predicazione, alimentata dalle sue letture e dall’insegnamento e restava profondamente scosso quando veniva a conoscere che molti sacerdoti e religiosi facevano sfoggio di erudizione profana nella predicazione. Pur non avendo il dono della parola per il difetto della balbuzie, sapeva infondere negli altri l’amore alla predicazione basata sul Vangelo. Questo periodo denso di studi e di impegno didattico a Padova, rappresentò il culmine drammatico della sua vocazione missionaria ed ecumenica, trasformata in offerta eroica di sé come olocausto e vittima. Nel mese di gennaio 1911 scriveva al suo direttore spirituale, che gli rispondeva: «Sia certo che questo atteggiamento di orante e di vittima dinanzi al Padre di tutti gioverà molto ai popoli dissidenti». Il 19 novembre 1912 si offri vittima per i propri studenti.

Questi atti eroici rappresentano la svolta della sua vita, l’inizio di una nuova dimensione spirituale. Ormai padre Leopoldo ha scelto uno stato permanente di vittima, nell’obbedienza radicale che assume i toni della dura obbedienza ignaziana e della mistica dell’annientamento sofferto con tutta la ricchezza della sua forte umanità dalmata. Aveva ormai quarantasette anni. È stato duro per lui sostituire ai suoi sogni di apostolato missionario i patimenti accettati in conformità a Cristo e a san Francesco. Egli, scrive un biografo, «sostituiva quanto poteva offrire di sé – fisicamente, esistenzialmente – agli scolari, ai penitenti, agli amici. La vita ne veniva compromessa per intero: compromessa perché gettata».

Esonerato dalla direzione degli studenti nel 1914, la sua vita futura sarebbe stata martirio di confessione, crocifissione al confessionale. Ma il suo cuore rimase sempre in Oriente. Per questo rifiutò sempre la cittadinanza italiana, tanto che durante la prima guerra mondiale fu costretto al confino e negli anni 1917-18 dovette pellegrinare nell’Italia meridionale, di convento in convento, come cittadino dell’impero asburgico allora in guerra con l’Italia. Quando, nel 1923,l’Istria e il Quarnaro furono annessi all’ Italia, padre Leopoldo fu destinato confessore a Zara. Una gioia immensa lo avvolse. Forse era la volta buona. Subito si trasferì nella nuova destinazione, ma poco tempo dopo, il 16 novembre veniva richiamato a Padova. La sua improvvisa partenza aveva inquietato una vera folla di penitenti che si rivolsero al vescovo Elia Dalla Costa. Odorico da Pordenone, ministro provinciale, fu costretto a richiamare il piccolo frate. Egli continuò il suo silenzioso martirio, appena addolcito nel 1924 da un corso di lingua croata tenuto a Venezia per i giovani frati. Sperava, almeno, di allevarsi un gruppo di missionari per l’Oriente, poiché infiorettava il suo insegnamento di risvolti apostolici. Aveva cinquantacinque anni.

Il 13 novembre 1927 redasse su un foglietto un suo ennesimo voto per il ritorno dei dissidenti orientali all’unità cattolica.

Tutti accorrevano al suo confessionale, piccoli e grandi, dotti e popolani, religiosi, sacerdoti, chierici e laici. Rinchiuso nella sua stanzetta di due metri per tre, con una finestrella malamente difesa dalle impannate e aperta su un cortiletto stretto e soffocato, padre Leopoldo esercitò fino alla morte il ministero della riconciliazione e della misericordia. Il suo Oriente divenne ogni anima che andava a chiedere il suo aiuto spirituale. Egli stesso il 13 gennaio 1941 scriveva:

Qualunque anima che avrà bisogno del mio ministero sarà per me un Oriente.

Confessava da dieci a dodici ore al giorno, incurante del freddo, del caldo, della stanchezza, delle malattie. «Stia tranquillo» – diceva ai suoi penitenti – «metta tutto sulle mie spalle, ci penso io», e si addossava sacrifici, preghiere, veglie notturne, digiuni, discipline a sangue. Egli andava incontro con gioia al penitente, anzi lo ringraziava e avrebbe voluto abbracciarlo. E una volta ascoltò in ginocchio un penitente che per sbaglio, entrando nella sua celletta, si era seduto lui sulla poltroncina.

Venne tacciato di lassista, di “manica larga”, e soffri molte contraddizioni. Ma egli, indicando il Crocifisso, rispondeva con meravigliosa esperienza della misericordia di Dio:

Se il Crocifisso mi avesse a rimproverare della manica larga risponderei: Questo triste esempio, paron Benedeto, me l’avete dato voi; ancora io non sono giunto alla follia di morire per le anime !

La storia del suo confessionale sarebbe un poema regale, una danza gioiosa di carismi e grazie e miracoli, che sarebbe troppo lungo raccontare. Ormai la vittima era pronta all’ultimo sacrificio.

Alla fine dell’autunno 1940 la sua salute declinò e andò sempre più peggiorando. All’inizio di aprile 1942 fu ricoverato all’ospedale civile. Ignorava di avere un tumore all’esofago. In convento continuò a confessare. Aveva paura della morte e il dolore lo stava consumando. Il 29 luglio 1942 confessò senza sosta e poi trascorse tutta la notte in preghiera. La mattina del 30 luglio nel prepararsi alla messa, svenne. Riportato a letto, ricevette i sacramenti degli infermi e terminando di ripetere le ultime parole della Salve Regina, tendendo le mani verso l’alto, quasi andasse incontro a qualcosa, come trasfigurato, spirò.

Tutta la città di Padova si riversò attorno alla sua salma e il suo funerale fu un trionfo. Trentaquattro anni dopo Paolo VI il 2 maggio 1976 lo dichiarava “beato”, e il 16 ottobre 1983 San papa Giovanni Paolo II lo proclamava “santo”.

Fonte: Costanzo Cargnoni (a cura di), Sulle orme dei Santi. Il Santorale cappuccino: santi, beati, venerabili, servi di Dio, Edizioni Padre Pio da Pietrelcina – Postulazione Generale OFMCap, San Giovanni Rotondo (FG) – Roma 2012, 381-386.

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